martedì 10 giugno 2008

"senza titolo"

Ogni riferimento a persone, fatti e situazioni e puramente casuale e di fantasia.

UNO

L'avvocato Giovanni Orazi mi fece attendere nella sala d'aspetto del suo studio. L'attesa agì su dì me in sen­so positivo. Sprofondato in una co­moda poltrona di cuoio verde, gli antichi dipinti ad olio, marine e pae­saggi, appesi alle pareti, costituivano per me come un sottile richiamo.

La giovane segretaria dai capelli rossi si staccò dal centralino. Aveva gli occhi molto truccati, le pesanti righe di nero la facevano sembrare un carcerato che guarda attraverso le sbarre di ferro della sua cella.

- Mi dispiace che il signor Orazi ritardi così. È, sempre per via di quella figlia -aggiunse con fa­re piuttosto misterioso. - Dovreb­be preoccuparsene meno. Ogni ragazza deve commettere i propri er­rori; come me, per esempio.

- Davvero?

- Io sono un tipico esempio. Faccio questo lavoro perché il mio secondo marito mi ha piantato.

- E voi, siete proprio un detective?

Risposi di sì.

- Mio marito fa il fotografo. Sono diventata matta per sapere con chi... dove vive.

- Dimenticatelo. Forse non va­le la pena di preoccuparsene.

- Avete ragione. Anche come fotografo non vale niente. Alcuni intenditori mi hanno detto che le sue fotografie non mi hanno mai reso giustizia.

Era una donna che aveva bisogno di essere compatita, pensai.

Un uomo alto sui cinquantacinque anni apparve sulla soglia. Era molto elegante, affascinante quasi, e sembrava che lo sapesse. I folti ca­pelli bianchi erano di taglio perfetto e l'espressione del viso attentamente adattata alla circostanza.

- II signor Alfonsi? Sono l'avvo­cato Orazi. - Mi strinse la ma­no con controllato entusiasmo e ci incamminammo lungo il corridoio, verso il suo ufficio. - Vi devo innanzitutto ringraziare per essere ve­nuto con tanta sol­lecitudine, e mi scuso per avervi fat­to attendere. Dovrei già essere in pensione, quasi, ma non ho mai avuto tante cose per la testa come og­gi.

Orazi non era così disorganiz­zato come voleva far credere. Par­lava molto, ma i suoi occhi freddi mi studiavano attentamente. En­trammo nello studio e l'avvocato mi fece accomodare in una poltrona di cuoio marrone di fronte alla sua scri­vania.

Un leggero raggio di sole filtrava attraverso i pesanti drappeggi delle finestre. La stanza era illuminata ar­tificialmente, e in quel diffuso bian­core Orazi stesso sembrava arti­ficiale, come una statua di cera. Su una mensolina, appesa alla parete dietro le sue spalle, c'era la fotogra­fia incorniciata di una ragazza bion­da con gli occhi chiari: sua figlia, probabilmente.

- Al telefono mi avete parlato dei signori Mori - dissi.

- Infatti.

- Qual è il loro problema?

- Ci arrivo subito. Voglio in­nanzitutto chiarire che Lorenzo e Irene Mori sono miei amici. Abi­tiamo in Via Dandolo, uno accanto all'altro. Conosco Lorenzo da sempre, e anche i nostri genitori erano amici. Ho imparato molto, per quanto riguarda la mia professione, dal padre di Lorenzo, il giudice. E la mia povera moglie era molto amica della madre di Lorenzo.

Orazi sembrava molto orgo­glioso di queste conoscenze. Men­tre parlava, si passava leggermente una mano sui capelli, e i suoi occhi e la voce erano vagamente sonnac­chiosi.

- Ci tengo a chiarire - ripetè - che i Mori sono persone pre­ziose... particolarmente per me. Vorrei che li trattaste con molto tatto.

L'atmosfera dell'ufficio era densa di esigenze sociali. Cercai di rompe­re l'incantesimo.

- Come oggetti antichi? - do­mandai.

- In un certo senso; ma non so­no vecchi. Penso a loro come a og­getti d'arte che non devono neces­sariamente essere utilizzati. - Orazi fece una pausa, poi continuò, come se fosse stato colpito da una nuova idea: - II fatto è che Lorenzo non ha combinato molto dopo gli studi. Certo, ha messo assieme un sacco di soldi, ma gli sono stati offerti su un vassoio di argento. Sua madre gli ha lasciato un grosso pa­trimonio, che poi la Borsa ha pen­sato a gonfiare.

Notai una nascosta nota di invidia nella voce di Orazi. Forse i suoi sentimenti verso i Mori non erano poi tanto semplici e pieni di adorazione.

- Dovrei esserne impressionato? - domandai, per reazione.

Orazi mi guardò stranito.

- Vedo che non sono riuscito a spiegarmi. Il padre di Lorenzo Mori, dopo aver combattuto nell’ultima guerra, si congedò con onore e sposò una nobile ereditiera spagnola. Lorenzo, il mio amico, fu mandato a studiare in un collegio esclusivo, e questo fa di lui, nella società in cui viviamo, qualcosa di molto simile a un aristo­cratico. - Era compiaciuto della bella frase.

- E la signora Mori?

- Nessuno potrebbe definire Irene un'aristocratica. Ma - aggiun­se con ardore inatteso - è una me­raviglia di donna. È tutto quello che una donna dovrebbe essere.

- Ma ancora non mi avete par­lato del loro problema.

- È un po' oscuro anche per me. – Orazi prese un foglio di car­ta gialla e con la fronte aggrottata cominciò a scarabocchiarlo. - La mia speranza è che loro stessi con un estraneo riescano a essere più franchi. Da quanto mi ha detto Irene, durante la loro assenza (erano a Capalbio per il week-end), nella loro casa è stato commesso un furto. Ma è un furto piuttosto strano. Se­condo lei, i ladri hanno rubato sol­tanto un oggetto di valore: un'an­tica scatola d'oro che tenevano chiu­sa nella cassaforte dello studio. Co­nosco quella cassaforte, il giudice Mori l'aveva fatta mettere tan­tissimi anni fa, e non mi pare che sia tanto semplice aprirla.

- I Mori hanno denunziato il furto alla polizia?

- No, e non hanno intenzione di farlo.

- Hanno servitù?

- Uno spagnolo tuttofare, che però vive fuori; ma è in casa loro da più di vent'anni. E poi, dal mo­mento che fa anche da autista, li aveva accompagnati a Capalbio. - Scosse il capo. - Eppure sembrerebbe un lavoro fatto da uno di casa, no?

- Sospettate quell'uomo, avvocato?

- Preferirei non dirvi chi o cosa sospetto. Lavorerete meglio senza troppi preconcetti. Da come li conosco io, Irene e Lorenzo sono persone molto discrete e io non pretendo di penetrare nella loro « privacy ».

- Hanno figli?

- Uno, Nicholas - rispose, in tono assolutamente privo di espres­sione.

- Quanti anni ha?

- Ventitré o ventiquattro. Do­vrebbe laurearsi quest'anno.

- In gennaio?

- Esatto. Al primo anno perdet­te un semestre. Lasciò la scuola sen­za dir niente a nessuno e scomparve per alcuni mesi.

- Da ancora del filo da torcere ai genitori, ora?

- Non la, metterei su questo piano.

- Avrebbe potuto essere lui a compiere il furto?

Orazi aspettò un po' prima di rispondere. A giudicare dai cambia­menti di espressione dei suoi occhi, probabilmente stava provando mentalmente varie risposte che andavano dall'accusa alla difesa.

- Avrebbe potuto farlo - ri­spose infine - ma non aveva nessun motivo per rubare una scatola d'oro a sua madre.

- I motivi possono essere molti. È un tipo che ama le donne?

- Sì - rispose, rigido. - Sì. E si da il caso che è fidanzato pro­prio con mia figlia Elisabetta.

- Oh, non intendevo...

- Non importa. Avreste potuto aspettarvelo. Ma mi raccomando, siate prudente quando parlerete con i Mori. Sono abituati a condur­re una vita molto tranquilla e temo che questa faccenda li abbia scon­volti. Considerano la loro casa come un tempio e ora questo tempio è stato violato.

Appallottolò il foglio di carta e lo buttò nel cestino. Il nervosismo del gesto mi fece pensare che sarebbe stato felice di potersi sbarazzare, al­lo stesso modo, dei Mori e dei loro problemi, figlio compreso.

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